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IMPRESA

Gli omessi versamenti rendono impossibile salvarsi dalla bancarotta

L’amministratore è responsabile anche se la società fallisce molti anni dopo le sue omissioni

/ Maurizio MEOLI

Lunedì, 8 settembre 2025

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La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 28178/2025, ha stabilito che è corretta la condanna per concorso in bancarotta impropria da operazioni dolose (art. 223 comma 2 n. 2 seconda ipotesi del RD 267/42) dell’amministratore che, prima di una lunga liquidazione (più di sei anni), lasci la società, poi fallita, con un debito erariale di circa 155.000 euro (debito, peraltro, cristallizzatosi in conseguenza dell’omessa “coltivazione” del ricorso da parte dei liquidatori).

La decisone di merito era stata criticata dall’imputato per i seguenti motivi: la considerazione del “dissesto” della società e non del suo “fallimento”, come invece testualmente richiesto; l’impossibilità di ravvisare il nesso di causalità rispetto alla propria condotta, pena la violazione del principio di legalità e la necessità di sollevare questione di costituzionalità; la non configurabilità del prescritto elemento soggettivo che, nella sostanza, gli veniva imputato a titolo di dolo eventuale sulla base di una soluzione incerta in giurisprudenza e che avrebbe dovuto essere rimessa alle Sezioni Unite.

Quanto al corretto significato da attribuire al termine “fallimento” utilizzato dal legislatore, la Suprema Corte evidenzia come l’art. 216, richiamato dal primo comma dell’art. 223, si riferisca al fallimento “in senso formale” (ossia al provvedimento giurisdizionale), mentre l’art. 223 farebbe riferimento al fallimento “in senso sostanziale”, cioè alla “situazione obiettiva di dissesto nella quale la società si viene a trovare per effetto delle operazioni poste in essere dal suo ceto gestorio”. Infatti, se così non fosse si avrebbe una inutile duplicazione del riferimento alla dichiarazione di insolvenza già contenuto nel rinvio all’art. 216.

Ne deriva che nell’art. 223 l’“estremo” della relazione eziologica deve essere proprio il dissesto e non il provvedimento giurisdizionale che accerta il fallimento. Il nesso di causalità tra operazione dolosa ed evento, peraltro, non è interrotto né dalla preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, né dal fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di dissesto, fenomeno di natura economica e in sé reversibile. Ciò è supportato sia dalla disciplina sul concorso di cause, ex art. 41 c.p., che dalla stessa fenomenologia del dissesto, quale situazione che non si verifica istantaneamente ma con progressione e durata nel tempo.

Con riguardo al profilo psicologico, poi, la Suprema Corte osserva come la matrice dolosa della condotta sia imperniata sulle operazioni prodromiche al dissesto, mentre l’evento non cade nel fuoco del dolo, neppure nella forma del dolo eventuale.
Vale a dire che il dolo – inteso come consapevolezza e volontà – attiene alle operazioni e non anche al dissesto, che deve essere “soltanto” prevedibile. Rispetto a tale ricostruzione, il riferimento al dolo eventuale – che si ritrova in alcune isolate pronunce (cfr. Cass. n. 16111/2024) – è reputato una mera imprecisione definitoria, dichiarandosi comunque espressamente un allineamento ai precedenti interventi giurisprudenziali.
Non si ravvisano, quindi, le condizioni per considerare “maturato” un contrasto sul tema da rimettere alle Sezioni Unite, ma si avverte comunque il bisogno di fornire alcune puntualizzazioni.

Si sottolinea, in particolare, come occorra la consapevolezza di porre in essere un’operazione che, concretandosi in un abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria della società, determini la prevedibilità della decozione. Gli omessi versamenti in questione sono in grado di supportare il giudizio di prevedibilità della loro scoperta e, di conseguenza, dell’attivazione delle iniziative risarcitorie e/o sanzionatorie destinate a sfociare nel depauperamento della società e, quindi, nel relativo dissesto.

Peraltro, nel rispetto dei principi costituzionali, la prevedibilità dell’evento non voluto deve essere valutata non in astratto ma in concreto, valorizzando tutti gli elementi del caso specifico ed escludendo meccanismi automatici e generalizzanti in grado di degenerare verso una responsabilità oggettiva (cfr. Corte Cost. n. 55/2021, che ha reputato compatibile con il dettato costituzionale anche la “prevedibilità in concreto, tenuto conto di tutte le peculiarità del caso di specie” e ha spiegato che il reato non voluto deve “potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto”).

In conclusione, ai fini della configurabilità del delitto in questione, deve sussistere non solo un rapporto di causalità materiale, ma anche un rapporto di causalità psichica. Secondo l’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, l’agente deve potersi rappresentare il dissesto (non voluto) come uno sviluppo logicamente prevedibile delle operazioni dolosamente compiute; in questo modo si richiede una partecipazione psichica dell’agente al fatto e, quindi, un coefficiente di colpevolezza in grado di tenere il reato indenne da dubbi di costituzionalità.

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