Da modificare certi termini perentori fissati dagli Uffici finanziari
Egregio Direttore,
leggendo le drammatiche testimonianze di disagio, espresse unanimemente sulla perniciosa invasività e “spannometricità” delle indagini finanziarie (si vedano “Le indagini finanziarie superficiali possono portare a effetti devastanti” e “Lo Stato di polizia tributaria è ormai una consuetudine”), da un lato, mi è tornata in mente una mia precedente lettera al vostro quotidiano (si veda “L’indagine finanziaria non dev’essere uno strumento di applicazione automatica”), del cui contenuto e, soprattutto, delle cui conclusioni sono sempre più convinto; dall’altro, sorge l’esigenza di lamentare un’ulteriore fonte di malessere professionale, condivisa e ragionata con diversi colleghi.
Mi spiego. Starà capitando a molti professionisti, in questo periodo, così come in altri, di dover dar seguito alle richieste di documentazione contenute nei questionari inviati dall’Agenzia, in relazione ai costi evidenziati nel prospetto di bilancio contenuto nella dichiarazione dei redditi delle società di capitali per l’anno d’imposta 2008. Bene, anzi male. Male perché si tratta, spesso, di dover mettere insieme un’incredibile mole di documentazione – fatture d’acquisto, registri IVA, schede di mastro, contratti sulla fornitura di servizi in essere alla data oggetto d’indagine, documentazione finanziaria attestante il pagamento dei costi in parola, documentazione sul costo sostenuto per il personale dipendente ed altro ancora – con la necessità di farlo nel termine perentorio di 15 giorni e magari, come capita inevitabilmente in questi giorni di febbrile attività, sotto scadenza di adempimenti telematici.
Nei questionari, il termine di 15 giorni è perentorio, prova ne sia il fatto che vengono invocati gli artt. 32, comma 4 e 39, comma 2 del DPR 600/73. In sostanza, viene rammentato al contribuente che ciò che non si presenta nei 15 giorni non potrà in alcun modo essere preso in considerazione, né nella fase amministrativa di emissione dell’eventuale avviso di accertamento, né in sede di contenzioso tributario, oltre al fatto che l’omessa risposta nel termine predetto legittima l’Ufficio all’accertamento induttivo. Si tratta, però, di un’interpretazione restrittiva degli Uffici, dato che la norma, cioè l’art. 32, comma 2 del DPR 600/73 (identicamente, l’art. 51, comma 3 del DPR 633/72), prevede che “dalla data di notifica decorre il termine fissato dall’ufficio per l’adempimento, che non può essere inferiore a 15 giorni”.
In tutto ciò, i commercialisti di questo strano Paese credo si sentano – io certamente sì – come Tom Cruise nel film Mission Impossible, al lordo delle imbragature che dobbiamo usare per calarci negli archivi, con due differenze. Qui non si parla di finzione, ma di vera vita professionale e, direi anche, personale, e noi non prendiamo, per acrobazie parimenti ardite, i compensi della citata star di Hollywood.
Cancellato l’amaro sorriso, constato che tanti giovani colleghi non hanno strutture di studio faraoniche e, quindi, non possono delegare a nessuno questa parte “straordinaria” di lavoro che ci precipita addosso. Spesso, quindi, conciliare gestioni ordinaria e “straordinaria” delle incombenze di studio diventa un’operazione alchemica di difficile realizzazione. Immagino che, legittimamente, all’Agenzia questo poco interessi e, di certo, non confido nella sensibilità di evitare l’invio di certe richieste in prossimità di scadenze fiscali, anche perché, purtroppo, i commercialisti sono costantemente, per un motivo o per un altro, sotto scadenza.
Allora, non potendo fare affidamento su una sorta di solidarietà tra colleghi, posto che in fondo – ad altrui giudizio – anche noi siamo da tempo dei parasubordinati dell’Agenzia, la richiesta dev’essere di altro tenore e ci vorrebbe davvero un tenore per gridare, dove conta farlo, la richiesta di modificare il termine, troppo avvitato, di 15 giorni. Né è pensabile di doversi rimettere, di volta in volta, all’illuminata o benevola concessione, da parte dei funzionari locali, di un maggior termine per l’adempimento in parola. Non è così che bisognerebbe procedere in un Paese che ama definirsi civile e che vuole essere tale anche esponendo il proprio profilo fiscale – non proprio il migliore.
Non può certo bastare l’invito di Befera, in una lettera del 2 luglio scorso, indirizzata ai propri dipendenti, che “obbliga a riservare agli utenti di un servizio pubblico un trattamento migliore di quello riservato ai propri figli, quando non si ha di fatto nei loro riguardi il comportamento proprio di un buon genitore”. Non basta, ci vuole certezza. Una certezza che può venire solo da una modifica del testo di legge o dall’ammonimento forte, uniforme sul territorio nazionale, incarnato in un documento di prassi che stabilisca che ci si deve attenere non al limite inferiore stabilito dalla prefata norma, ma ad altro decisamente più ampio.
A beneficio di chi potrebbe pensare “Ma questo dice di non avere tempo e poi si mette a scrivere al Direttore di Eutekne.info!”, rappresento che, per (s)fortuna, soffro di insonnia. Va bene, adesso provo a dormire... questionari permettendo.
Marco Cramarossa
Presidente UGDCEC di Bari e Trani
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