IL PUNTO
TUTELA DEL PATRIMONIO
Il donatario non è «possessore» dei beni ereditari
/ Anita MAURO
La successione a causa di morte è un fenomeno complesso che determina il subentro di una persona vivente nella titolarità della posizione giuridica patrimoniale appartenuta ad una persona defunta. Limitando l’analisi alla successione a titolo universale (lasciando da parte, quindi, i legatari e soffermando l’osservazione sugli eredi), si deve osservare come l’erede che abbia accettato l’eredità subentri in tutte le situazioni giuridiche trasmissibili (sono solitamente escluse le situazioni giuridiche non patrimoniali e i diritti personalissimi) facenti capo al de cuius: l’erede subentra non solo nelle posizioni attive, ma anche nelle posizioni passive. Presupposto indefettibile affinché si realizzi effettivamente l’acquisto della qualità di erede e la trasmissione di beni e diritti è l’accettazione dell’eredità da parte del chiamato, che rappresenta l’atto con cui egli manifesta la volontà di acconsentire al fenomeno successorio. L’accettazione determina effetti retroattivi, in quanto l’erede si considera tale dal momento dell’apertura della successione, in modo da evitare ogni soluzione di continuità nell’avvicendarsi della posizione del defunto e dell’erede (art. 459 c.c.). L’erede ha 10 anni a disposizione per decidere se accettare l’eredità (art. 480 c.c.), oltre i quali il suo diritto si prescrive. La possibilità di temporeggiare nella decisione sulla successione potrebbe, però, trovare ostacoli nel compimento di atti che determinano l’accettazione tacita dell’eredità (ovvero tutti quei comportamenti che presuppongono la volontà di accettare e che l’erede non avrebbe il diritto di compiere se non nella qualità di erede, cfr. l’art. 476 c.c.). In relazione alle posizioni debitorie facenti capo al defunto, l’accettazione dell’eredità può, quindi, rappresentare un elemento di conflitto tra chiamati (o eredi) e creditori del defunto, in quanto, può accadere che:
- i creditori del defunto abbiano interesse a dimostrare l’avvenuta accettazione, per ottenere il soddisfacimento del loro credito dal successore del defunto;
- mentre i chiamati abbiano interesse a dimostrare di non aver accettato l’eredità, per evitare di dover rispondere dei debiti del de cuius. In questo contesto, i creditori potrebbero cercare di dimostrare l’avvenuta accettazione tacita dell’eredità, in quanto essa li metterebbe in condizione di soddisfare il loro credito. Assume rilievo, in questo ambito, la disposizione recata dall’art. 485 c.c. che fissa una regola particolare per il chiamato che sia nel possesso dei beni ereditari. La posizione di questo soggetto si differenzia nettamente da quella del “non possessore”, in quanto il legislatore fissa particolari doveri: l’erede che sia nel possesso dei beni ereditari deve redigere l’inventario e se non lo fa entro i termini indicati dalla norma, è considerato erede puro e semplice. In breve, per l’erede possessore dei beni ereditari si apre un’ulteriore ipotesi di accettazione “involontaria” dell’eredità, in conseguenza del mancato inventario. Una recente sentenza (Cass. 3 luglio 2025 n. 18056) ha definito i confini di questa norma, applicandola ad una vicenda nata dal mancato pagamento, da parte del defunto, della parcella di un professionista. Questo ultimo, infatti, aveva richiesto il pagamento alla figlia del defunto, sostenendo che essa avesse accettato l’eredità in forza proprio dell’art. 485 c.c., in quanto era in possesso di un bene che il defunto le aveva donato e non aveva redatto l’inventario nei termini. La Cassazione chiarisce, però, che, in questo caso, l’art. 485 c.c. non può trovare applicazione. In primo luogo, per effetto dell’art. 485 c.c. l’acquisto della qualità di erede puro e semplice si produce, in capo al possessore di beni ereditari “indipendentemente da una qualsiasi manifestazione di volontà, effettiva o supposta, poiché il possesso di beni ereditari in cui si trovi o si immetta il chiamato è un fatto per sé stesso idoneo a condurre all’acquisto”. La disposizione, tuttavia, non può trovare applicazione al soggetto che sia, al contempo:
- chiamato all’eredità del defunto in base alle regole della successione legittima;
- donatario, avendo ricevuto beni dal de cuius quando questi era in vita con atto di liberalità. In questa ipotesi, la donazione costituisce il titolo che giustifica il trasferimento del bene che, quindi, non rientra nell’attivo ereditario, a meno che non sia vittoriosamente esperita l’azione di riduzione o, nelle ipotesi di collazione, il donatario scelga di conferire il bene stesso in natura. In breve, si configura il “possesso” di beni ereditari da parte del legittimario, che costituisce presupposto di applicazione dell’art. 485 c.c., solo nell’ipotesi in cui il medesimo non vanti alcun diverso titolo di trasferimento sui beni stessi, con la conseguenza che il legittimario non può essere considerato erede se in possesso di beni che il de cuius gli aveva donato mentre era in vita (cfr. Cass. n. 13972/2007). Pertanto, il donatario che abbia acquistato il bene per donazione può esercitare le azioni possessorie a tutela senza che ciò comporti l’accettazione tacita dell’eredità (cfr. Cass. n. 11018/2008). L’art. 485 c.c. si riferisce ai soli beni ereditari e non ai beni che sono usciti dal patrimonio del de cuius per effetto di donazione e che possono rientrare a farne parte solo in caso di esperimento vittorioso dell’azione di riduzione o, nelle ipotesi di collazione, qualora il donatario scelga di conferire il bene stesso in natura.