Vendita di cosa altrui acquistata per morte dal terzo di dubbia validità
/ Carmela NOVELLA
L’art. 1478 c.c. contempla una particolare figura di vendita ad effetti obbligatori denominata “vendita di cosa altrui”. In questo schema negoziale, il venditore promette all’altra parte il trasferimento della proprietà di un bene, mobile o immobile, facente capo a un soggetto terzo. Per forza di cose, una convenzione così configurata è insuscettibile di produrre l’effetto traslativo della proprietà in virtù del semplice incontro tra proposta e accettazione (c.d. principio consensualistico ex art. 1376 c.c.), posto che il dante causa non può trasferire all’avente causa maggiori diritti di quanti non ne abbia. Piuttosto, la vendita di cosa altrui fa sorgere l’obbligazione dell’alienante di procurare all’acquirente la proprietà della cosa, acquistando egli stesso il diritto di cui all’art. 832 c.c. da colui che ne è titolare e facendo sì che, ai sensi del comma 2 dell’art 1478 c.c., il compratore consegua automaticamente la proprietà della res senza il bisogno di un’ulteriore dichiarazione. L’inadempimento dell’obbligazione descritta è fonte di responsabilità risarcitoria ex art. 1218 c.c., cui si cumula, nell’ipotesi in cui l’acquirente, al momento della stipula, non fosse a conoscenza dell’altruità della cosa, la possibilità di domandare la risoluzione del contratto (art. 1479 comma 1 c.c.). La vendita di cosa altrui, per quanto astrattamente lecita e consentita dall’ordinamento, è di dubbia validità, per interferenza con il divieto di patti successori c.d. “dispositivi” di cui all’art. 458 c.c., nei casi in cui il potenziale erede utilizzi lo schema ex art. 1478 c.c. per obbligarsi a far conseguire al compratore la proprietà del bene che dovrebbe provenirgli dalla futura successione. Si ricorda, infatti, che l’art. 458 c.c. sanziona (tra l’altro) con la nullità ogni atto mediante il quale “taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta”. Il divieto, come osservato dalla giurisprudenza, trova la propria ragione giustificativa nell’immoralità del votum corvinum e, cioè, nel rischio che lo stipulante sia “tratto a fare voti che la persona della cui eredità si tratti muoia al più presto” (Cass. n. 2619/1976). Parte della dottrina ritiene che gli accordi negoziali da considerarsi illeciti (e quindi nulli) per violazione della norma imperativa sopra richiamata siano soltanto quelli che effettivamente trovano nella morte la causa dell’attribuzione, con riflessi sulle quote ereditarie, mentre sono leciti i patti compiuti “sotto modalità di morte”, tra cui, per l’appunto, la vendita di cosa altrui ove l’alienante acquisti mortis causa la proprietà del terzo. La morte del proprietario del bene, cioè, non dovrebbe costituire la causa unica del trasferimento, bensì una tra le possibili modalità attraverso le quali il venditore può adempiere la propria obbligazione di procurare al compratore l’acquisto della res nei termini pattuiti. In ordine alla posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità, si osserva quanto segue. Nella sentenza n. 24144/2015, la Suprema Corte ha affermato che, in linea generale, nel caso di vendita di cosa altrui, la fattispecie acquisitiva prevista dall’art. 1478 comma 2 c.c. si verifica anche se la coincidenza delle posizioni di venditore e proprietario della cosa venduta sopravviene per causa di morte. Il tenore letterale della norma citata non autorizza, infatti, a ritenere che il venditore sia tenuto a procurare al compratore l’acquisto della proprietà del bene altrui in forza di un atto inter vivos, né è possibile argomentare in contrario che l’obbligo di fare ex art. 1478, comma 1 c.c. abbia natura personale incompatibile con la trasmissibilità iure successionis. Va comunque osservato che nella concreta fattispecie esaminata dalla predetta pronuncia il problema dei rapporti con il divieto di patti successori non veniva in rilievo, posto che in tal caso era stato il defunto ad alienare un bene parzialmente appartenente al futuro erede. Più pertinenti sono, invece, alcune più risalenti decisioni (Cass. n. 2619/1976 e Cass. n. 527/1974) alle quali si deve l’enunciazione del principio secondo cui la vendita del bene di un terzo, prima della morte dello stesso, può integrare gli estremi della vendita di cosa altrui ex art. 1478 c.c. qualora, secondo la comune intenzione delle parti, il contratto debba produrre l’effetto obbligatorio, suscettibile di immediata esecuzione, di vincolare il venditore a procurare al compratore l’acquisto del bene venduto. In tale ipotesi, la vendita non è nulla e l’effetto reale si verifica automaticamente, quando, alla morte del terzo, il venditore abbia acquistato la proprietà della cosa per successione. L’atto dispositivo è, invece, nullo, configurando un patto successorio se, sulla base di una valutazione riservata al giudice di merito, sia accertato che il suo oggetto sia stato considerato dalle parti come oggetto della futura eredità, nel senso che l’acquisto del bene debba farsi da parte del venditore successionis causa e non ad altro titolo. Con tutta evidenza, questa lettura, presuppone un’indagine sull’effettiva volontà dei contraenti, la cui dimostrazione – a meno che l’intenzione di considerare il bene come oggetto di una futura successione non emerga ictu oculi dal tenore dell’accordo – è estremamente ardua e necessariamente affidata a presunzioni.