Senza scritture vale ancora il «deficit fallimentare»
/ Maurizio MEOLI
La Corte d’Appello di Catania, nella sentenza n. 136/2020, ha affermato che la disciplina di cui al nuovo art. 2486 comma 3 c.c., come inserito dall’art. 378 comma 2 del DLgs. 14/2019, in tema di quantificazione del danno da illecita prosecuzione dell’attività sociale, è inapplicabile ai giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della nuova previsione (16 marzo 2019). Appare, quindi, importante ricapitolare i principali approdi da considerare con riguardo alle cause pendenti alla suddetta data ed aventi ad oggetto la quantificazione del danno da illecita prosecuzione dell’attività sociale, ponendo in essere atti gestori estranei ad una logica meramente conservativa in epoca successiva alla perdita di capitale sociale. Chiarite le ragioni che non consentono la prova di effetti dannosi correlati a specifiche condotte degli amministratori, è possibile il ricorso, in via equitativa, ai criteri del c.d. “deficit fallimentare” o del “differenziale dei patrimoni netti” (o “perdita incrementale”). Il primo determina il danno prodotto in una somma di denaro coincidente con la differenza tra l’attivo ed il passivo fallimentare. Si tratta di un parametro connotato da un’elevata approssimazione, sia perché non è certo che le passività coincidano con la somma delle domande di ammissione presentate dai creditori, sia perché l’attivo risente necessariamente della svalutazione di alcuni beni direttamente riconducibile alla dichiarazione di fallimento (si pensi a beni immateriali quali l’avviamento o a taluni marchi). Proprio a causa dei suoi limiti, il criterio in questione ha un utilizzo limitato ai casi di mancanza, falsità o totale inattendibilità della contabilità e dei bilanci della società dichiarata fallita, quale situazione che determina l’impossibilità di ricostruire la movimentazione degli affari dell’impresa e quando il dissesto sia stato cagionato da un’attività distrattiva così reiterata e sistematica da escludere la possibilità concreta di una quantificazione parametrata sul valore dei beni distratti e dissipati (cfr. Cass. SS.UU. n. 9100/2015 e Trib. Catania n. 4922/2019). Il criterio dei netti patrimoniali trova, invece, prevalente utilizzo nei casi in cui sia possibile ricostruire la movimentazione degli affari dell’impresa. A tali fini occorre, da un lato, che si individui il momento a partire dal quale l’attività d’impresa è proseguita indebitamente (da quando risulti la diminuzione del capitale sociale al di sotto dei limiti di legge o, in alternativa, da quello del determinarsi dello stato di insolvenza che avrebbe imposto di presentare istanza di fallimento “in proprio”), dall’altro, di tenere conto del momento della dichiarazione di fallimento (o, se c’è stata, della messa in liquidazione antecedente alla dichiarazione di fallimento); ciò al fine di calcolare la differenza tra il valore del patrimonio netto alla data iniziale, quella in cui l’attività di gestione caratteristica doveva cessare, ed il valore del patrimonio netto al momento finale in cui, per il fallimento (o per l’anteriore messa in stato di liquidazione), la gestione caratteristica è effettivamente cessata. La differenza equivale al danno prodotto dall’indebita prosecuzione dell’attività (cfr. Trib. Catania n. 4922/2019). Occorre, peraltro, considerare che non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell’attività d’impresa, potendo essa in parte prodursi anche in pendenza di liquidazione o durante il fallimento in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa (cfr. Trib. Catania n. 4922/2019, Trib. Genova n. 1006/2017 e Cass. n. 17033/2008). Lo sbilancio patrimoniale, inoltre, può avere cause molteplici non necessariamente tutte riconducibili a comportamenti illegittimi di gestori e controllori della società. La sua concreta misura può dipendere non tanto dal compimento di atti illegittimi, quanto dalla gestione nel suo complesso e dalle scelte discrezionali in cui questa si traduce, ossia da attività sottratte per loro natura al vaglio di legittimità del giudice (cfr. Trib. Catania n. 4922/2019). Il criterio dei “netti patrimoniali”, allora, è stato corretto, innanzitutto, rendendo omogenee le situazioni patrimoniali da comparare. In particolare, si è precisato che: la situazione patrimoniale iniziale, oggetto di raffronto, deve essere depurata delle poste dell’attivo la cui valorizzazione si giustifichi esclusivamente in una prospettiva di continuità aziendale (avviamento, immobilizzazioni immateriali e ammortamenti); le rettifiche operate sul primo bilancio, quali tipicamente quelle effettuate per correggere omesse svalutazioni di voci attive finalizzate ad occultare una perdita, vanno ripetute anche nel secondo bilancio posto in comparazione. Inoltre, dal momento che anche le attività di mera liquidazione implicano costi e oneri ineliminabili, che, in quanto tali, non possono imputarsi a titolo di danno nel determinare la differenza tra i patrimoni netti, si è sottolineato come non possa tenersi conto di tutti quei costi che sarebbero stati affrontati anche nel caso di pronta messa in liquidazione. Si pensi a quanto dovuto ai dipendenti che sarebbero comunque rimasti in forza, ai canoni di locazione dei locali o di leasing ed ai costi per prestazioni professionali necessarie anche nella fase di liquidazione (cfr. Trib. Milano n. 6992/2019 e Trib. Catania n. 4922/2019).