Limiti all’oggetto del patto di non concorrenza
Il compenso pattuito non deve essere iniquo in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione della sua capacità di guadagno
Il patto con il quale viene limitato lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del lavoratore e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata.
È così che l’art. 2125 c.c. delinea il patto di non concorrenza, ossia l’accordo in forza del quale il datore di lavoro, per tutelarsi da un’eventuale concorrenza da parte di un ex dipendente, può limitare l’attività professionale di quest’ultimo in un momento successivo alla conclusione del rapporto.
In materia si è recentemente pronunciata la Suprema Corte, con ordinanza n. 13048 del 16 maggio 2025.
Nel dettaglio, la Cassazione è stata chiamata a decidere in merito alla legittimità di un patto di non concorrenza con cui veniva imposto a una lavoratrice il divieto di prestare attività a favore di imprese operanti in tutti i settori di cui si occupava la precedente datrice di lavoro, per lo svolgimento di qualsiasi mansione.
Confermando le pronunce dei giudici di prime e di seconde cure, la Cassazione ha chiarito come, nel caso di specie, dovesse ritenersi non congruo il compenso pattuito – poco più di 3.000 euro lordi –, rispetto alle limitazioni subite (considerato anche l’arco temporale di estensione dell’accordo – 15 mesi – nel quale la lavoratrice avrebbe dovuto astenersi dal realizzare attività lavorative).
Nell’assumere tale decisione, la Corte ha fatto proprio un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis Cass n. 5540/2021; si veda “Due piani distinti per valutare la nullità del patto di non concorrenza” del 2 marzo 2021), in forza del quale, per valutare la validità di un patto di non concorrenza, in riferimento al corrispettivo dovuto, si richiede innanzitutto che, in quanto elemento distinto dalla retribuzione, lo stesso possieda i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c.; va poi verificato, ex art. 2125 c.c., che il compenso pattuito non sia meramente simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in relazione al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione della sua capacità di guadagno.
A ben vedere, tale pronuncia limita la valutazione circa la legittimità dell’accordo in relazione all’ammontare del compenso, vagliando, in altre parole, la proporzionalità di quest’ultimo rispetto al sacrificio assunto dal lavoratore.
Ma, indipendentemente dall’ammontare del corrispettivo, ci si può chiedere fino a che punto possa essere vincolata l’attività futura del prestatore di lavoro.
Ebbene, una risposta a tale domanda viene fornita dalla recente pronuncia n. 13051/2025, con cui la Cassazione, riprendendo il principio di diritto sopracitato, aggiunge: “[…] che il patto non sia di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale”.
Viene valorizzata, quindi, la professionalità del lavoratore che, dopo aver cessato la precedente attività lavorativa, deve essere posto in condizioni tali da assicurarsi un guadagno idoneo alle sue esigenze di vita (cfr. App. Venezia n. 609/2023; Trib. Roma 8274/2021; Cass. nn. 23418/2021, 7835/2006 e 15253/2001).
Tanto assunto, è fondamentale aggiungere come l’attitudine di un patto di non concorrenza a influire sulle capacità di rioccupazione del lavoratore comporti una valutazione congiunta dell’oggetto e dell’estensione territoriale dell’accordo: tanto più ampio è l’oggetto, tanto meno potrà esserlo il territorio, e viceversa.
È bene, quindi, ricordare come anche il riferimento territoriale debba essere individuato specificamente (cfr. Cass. n. 13357/2022) nonché come la giurisprudenza ritenga validi patti di non concorrenza estesi a tutto il territorio nazionale (cfr. Cass. n. 7835/2006) e, in determinate circostanze, anche al territorio europeo; ciò, ad esempio, nel caso in cui l’impresa stipulante abbia carattere multinazionale e l’accordo stesso presenti un oggetto molto circoscritto di attività inibite (cfr. Cass. n. 13282/2003).
Infine, la valutazione di questi l’elementi non può prescindere da una considerazione rispetto ad un altro aspetto fondamentale del patto, ossia la sua durata temporale. In merito a ciò, tuttavia, già l’art. 2125 c.c. summenzionato individua dei limiti: 3 anni per la generalità dei lavoratori, 5 anni per i dirigenti.
Vietata ogni riproduzione ed estrazione ex art. 70-quater della L. 633/41