Incostituzionale la disciplina dei licenziamenti nelle piccole imprese
La Consulta boccia il tetto massimo delle sei mensilità per l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo
È incostituzionale il tetto massimo delle sei mensilità previsto per l’indennizzo spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nelle imprese di piccole dimensioni.
Così si è espressa la Corte Costituzionale con la pronuncia n. 118 pubblicata ieri, 21 luglio 2025, dichiarando l’illegittimità dell’art. 9 comma 1 del DLgs. 23/2015, limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.
La questione era stata posta dal Tribunale di Livorno che, con l’ordinanza del 2 dicembre 2024 (si veda “Legittimità della disciplina dei licenziamenti nelle piccole imprese ancora dubbia” dell’11 gennaio 2025), aveva rilevato come la tutela garantita dall’art. 9 comma 1 del DLgs. 23/2015 ai dipendenti di imprese di piccole dimensioni in caso di illegittimità del licenziamento fosse inadeguata, prevedendo un risarcimento dimezzato e comunque confinato entro un limite di sei mensilità.
Tale disposizione, individuando una forbice estremamente ridotta, dalle tre alle sei mensilità, non consentirebbe al giudice di operare una “personalizzazione” del risarcimento in relazione alle circostanze del caso concreto e ciò in applicazione di un criterio – quello delle dimensioni occupazionali del datore di lavoro – riferito a un fattore esterno al rapporto di lavoro, criterio, peraltro, “non più idoneo, di per sé, a rilevare la reale forza economica del datore medesimo”.
La Consulta ricorda in prima battuta che tale disciplina è già stata oggetto di decisione: con la pronuncia n. 183/2022, la Corte, dichiarando la questione di costituzionalità inammissibile, aveva domandato al legislatore di intervenire, sottolineando come “un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe stato tollerabile”, specificando altresì che l’eventuale riproposizione della questione l’avrebbe indotta a “provvedere direttamente”.
Ciò assunto, anche in considerazione del tempo decorso, la Consulta asserisce la fondatezza della questione, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 9 comma 1 del DLgs. 23/2015, come detto limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.
Nel dettaglio, il giudice delle leggi precisa che la violazione dei principi costituzionali non deve ravvisarsi nel dimezzamento degli importi delle indennità previste dagli artt. 3 comma 1, 4 comma 1 e 6 comma 1 del DLgs. 23/2015, bensì nell’imposizione del tetto massimo delle sei mensilità: in forza di detto limite, insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, si realizza una tutela indennitaria incompatibile con la “necessaria personalizzazione del danno subito dal lavoratore” (cfr. Corte Cost. n. 194/2018).
Contenere in tal modo le conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro, prosegue la Corte, rende la tutela risarcitoria in questione sostanzialmente analoga a una forma di liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, inidonea a venir incontro alle specificità del caso concreto: così limitato, l’indennizzo non può essere tale da garantire un effettivo ristoro del pregiudizio sofferto dal lavoratore, ristoro che, pur potendo essere circoscritto, non può essere del tutto sacrificato, neppure in nome dell’esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi.
La Consulta conclude, quindi, dichiarando la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 9 comma 1 del DLgs. 23/2015 ed esprimendo al contempo l’auspicio che il legislatore intervenga sulla disciplina, nel rispetto del principio in forza del quale il criterio del numero dei dipendenti dell’impresa non può più costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e, quindi, della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare anche altri fattori ugualmente significativi, secondo quanto previsto dalla legislazione nazionale ed eurounitaria.
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