Invece di discutere sul titolo professionale miglioriamo la qualità
Gentile Redazione,
un mese fa sottolineavo l’apprezzamento per il riconoscimento della qualità dell’offerta professionale dei commercialisti come risultava da una sentenza della Suprema Corte (si veda “La professione si afferma con la qualità”), e sorprende assistere ora alla polemica tra i vertici nazionale, presenti e passati, sulla necessità dell’indicazione nei rapporti pubblici del titolo professionale completo dei presupposti accademici, come se quella fusione di tanti anni fa non sia stata mai completamente recepita e il desiderio di elevare steccati, magari solo formali, prevalga sulla sostanza.
Siamo in presenza della partenza di una riforma tributaria epocale, forse più significativa di quella del 1972/73; nuovi strumenti tecnologici si affacciano alla ribalta anche delle nostre attività professionali – l’intelligenza artificiale rischia di stravolgere anche l’ordinaria contabilità – eppure il dibattito ha come elemento principale l’uso del titolo professionale di “Commercialista” con o senza indicazione del percorso seguito!
Intanto non si può tralasciare il fatto che il termine sia diventato assolutamente comune: il mio commercialista, il commercialista della società e già questo dovrebbe sopire le polemiche, perché quando una categoria è correttamente individuata e apprezzata dalla denominazione generale vuol dire che si è affermata nella propria identità.
Pretendere oggi di sottolineare se l’origine del professionista interessato deriva da un percorso universitario o di istituto superiore è una diminuzione dell’immagine, che si sta consolidando, del “commercialista” come esperto di qualità in campo sia aziendale che fiscale che legale; cerchiamo di migliorare questa preparazione e questa offerta di servizi, lasciando i ricordi di scuola ai tempi di Giovanni Mosca che ne scrisse cent’anni fa!